Mettiamola così: fossi un regista questa storia la farei cominciare dal suo climax, ovvero nel momento in cui tutto sta per succedere, ma ancora non è accaduto. Farei un primo piano sul ragazzo col cellulare in mano che ha appena chiamato le Forze dell’Ordine perché sa che di lì a poco succederà qualcosa di brutto. Poi repentino sposterei l’attenzione sulla risposta dall’altro capo della linea: “finché non succede qualcosa non possiamo intervenire”. Adesso userei la grafica a video e queste sette parole le renderei visibili, tipo fumetto, aggiungerei il suono di un battito cardiaco che aumenta e contemporaneamente zumerei sull’inchiostro della scritta “finché non succede qualcosa non possiamo intervenire”. Zumerei allorquando la camera non si perdesse nel nero.
Sospensione. Suono di una bottiglia che si rompe. Ciak: bottiglia che si conficca nella nuca di un ragazzo tra schegge di vero e perline di sangue… poi il caos.
Ma io non sono un regista. Non sono neppure un giornalista. Sono un cittadino e uno psicologo che da un po’ di tempo si è interessato alla sicurezza urbana. Volete sapere qual’è l’ultima tendenza in materia? La predittivitá statistica: ovvero la capacità di predire dove avverrà il prossimo furto, la prossima rapina o anche la prossima rissa. Questa tecnologia non è fantascienza: sono infatti già molte le città che grazie all’informatica, ai big data (e ad un sacco di altre diavolerie derivate dalla scienza e della tecnologia) che si sono attrezzate per rendere più sicure le loro strade inviando preventivamente le Forze dell’Ordine nelle zone e negli orari ritenuti più a rischio.
Di questa visione avveniristica (ma neanche più di tanto) ho avuto modo di parlare con alcuni protagonisti della politica cittadina, i quali, pur riconoscendone l’interesse, hanno poi deciso di investire in tecnologie ex post quali, su tutte, la videosorveglianza. Come se questa avesse un qualche impatto reale sul comportamento dei reati contro la persona. Immaginate gli autori del regolamento di conti (non chiamiamola rissa!) accaduto in via Settesoldi. Immaginateli organizzarsi per distruggere il Pinchos e poi, una volta arrivati lì davanti in gran numero, tornare mestamente indietro perché uno di loro ha notato il bianco occhio della videosorveglianza.
Ma torniamo ai fatti realmente accaduti: i protagonisti sono un gruppo di delinquenti (che agiscono da delinquenti); un proprietario di locale notturno (che decide di comportarsi responsabilmente non dando da bere ai delinquenti) e, infine le Forze dell’Ordine (quelli del “finché non succede qualcosa non possiamo intervenire”). Come andrà a finire lo sappiamo tutti: un locale distrutto, un ragazzo con molti punti di sutura in testa, la fama di Prato città invivibile ancora una volta rispolverata. Il fatto nuovo è che stavolta sarebbe potuta finire in modo molto diverso se solo fosse stata abbandonata una volta per tutte l’idea dell’intervento solo a fatto accaduto. Perché qui, di motivi per incazzarsi ce ne sono molti ma quelle sette parole, secondo me, vincono su tutto il resto: finché non succede niente non possiamo intervenire.
A poco dunque valgono i “tavoli sulla sicurezza” e la solidarietà dell’assessore. Quel che serve, a parere dello scrivente, è un profondo cambio di prospettiva sulla gestione della sicurezza in città da parte di tutte le figure coinvolte. Perché se si ha la “fortuna” di ricevere una chiamata che con buona probabilità ci indica in anticipo il luogo di un probabile crimine e si risponde alla chiamata con un “aspettiamo che succeda qualcosa…” beh, significa che c’è molto, moltissimo da lavorare.
Temo però che, per adesso, ci toccherà aspettare fiduciosi la videosorveglianza davanti al parcheggio ex Coop in piazza San Marco. Sia mai che guardando i monitor si noti qualcosa di strano.
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