Io sto in provincia. E dentro alla provincia abito in un paese che ora, con le città che si sono via via ingrandite a scapito degli spazi verdi, da molti viene ritenuto una frazione. Ma è un paese, c’è differenza. Chi ci abita lo sa. Una volta sognavo di vivere in una grande città e di compiacermi dei suoi movimenti frenetici, padrone della metropolitana e con la musica sparata alta nelle orecchie. Pensavo che vivere in una zona ai più sconosciuta fosse da sfigati.
Oggi il quadro circostante non è cambiato: idealmente la grande città e la provincia continuano ad offrire due modelli di vita contrapposti. Ma sono cambiato io e sono cambiati i miei pensieri. Quello che prima era un limite, oggi è diventato un valore. Quello che prima mi attraeva, oggi quasi mi spaventa. Parlare nella mia lingua col compaesano di turno, magari usando espressioni dialettali, è diventata una piacevole certezza, quando prima il sogno era quello di interloquire in inglese con persone provenienti da chissà quale paese lontano. Avere rapporti frequenti con persone che con me condividono le proprie radici storiche, se non addirittura l’amicizia dei rispettivi genitori, è diventato un elemento che dà sicurezza, facendomi sentire parte di un piccolo ecosistema, quando prima sembrava essere una faccenda quasi soffocante.
La nuova valutazione di aspetti che in realtà sono immutati da svariati anni si è formata pian piano, ma ha conosciuto un’accelerazione durante la quarantena per il coronavirus. Il trovarsi improvvisamente coinvolti in una situazione così insolita e rischiosa ci ha resi tutti straniti ed ha fatto apprezzare ulteriormente la possibilità di contare su persone vicine, con cui scambiare (a distanza) parole di conforto. Ha attribuito un valore anche alle voci familiari provenienti dalle case circostanti, nel silenzio surreale creatosi per l’assenza dei rumori delle macchine.
Questi piccoli e numerosi doni che le realtà locali sono ancora capaci di concedere ai propri residenti, maggiormente nei contesti provinciali, sono sempre più a rischio. La provincia, è inutile negarlo, fa fatica ad andare avanti. Non c’è il lavoro di una volta. E non ci sono né investitori stranieri pronti a creare nuova occupazione, né turisti spediti in loco dai tour operator, dalla Lonely Planet o dalla Routard.
Sono luoghi reputati come non più convenienti per impiantare degli stabilimenti produttivi. Allo stesso tempo, non sono neanche sufficientemente scintillanti per il turismo di massa. Le loro nicchie di bellezze artistiche e paesaggistiche sono spesso sconosciute anche agli abitanti del posto e, quindi, scarsamente promosse come eccellenze con cui attirare le attenzioni dall’esterno. Servirebbero competenze ed investimenti in marketing del territorio che, in provincia, non è facile rintracciare o implementare, anche semplicemente perché il relativo costo non sarebbe probabilmente giustificato dai numeri ottenibili in cambio.
La tendenza alla centrificazione ha escluso molte aree dalle attenzioni della politica e degli investitori. Non ci sono validi progetti di rilancio. Se la cavano leggermente meglio quelle città di provincia che sono vicine alle metropoli o alle città turistiche. Per il resto, in molti casi, siamo di fronte a posti senza un destino.
Ecco quindi che, con le difficoltà create da una globalizzazione che si è dimenticata di questi posti, la provincia arranca nella ricerca di un equilibrio socio-economico. Pur in affanno, però, riesce ancora ad offrire quel piacere di vivere che altrove è più raro. E questo valore dovrebbe essere preservato. In provincia si trova ancora traccia viva delle specificità di una volta. C’è ancora qualcosa dell’Italia che fu. Quel qualcosa che non trovi più né nelle metropoli, né nei grandi centri turistici. Sono ingredienti svaniti, decadenti, ma veri, non falsificati dalla ricerca del profitto. Le relazioni, prima di tutto, hanno ancora il seme della naturalezza e dei sentimenti veri. Pure i vecchi luoghi di lavoro, fabbriche o cascine, hanno ancora un loro fascino, siano essi recuperati per fini culturali, artistici o imprenditoriali oppure abbandonati. Ma sono lì, a perenne ricordo di come fu creato quel benessere di cui, in parte, ancora oggi godiamo.
L’Italia dovrebbe ricordarsi della provincia. Come studiavamo una volta nei libri di scuola, ogni provincia aveva la sue eccellenze: mestieri, prodotti, costumi, feste. Erano le vere ricchezze del nostro Paese. Da una parte, le città ricche di arte, che sapevano far coesistere le loro bellezze con la normale vita degli abitanti, con l’artigianato e con le produzioni locali. Dall’altra parte, le città che non erano propriamente a vocazione artistica. Magari di arte da mostrare ne avevano comunque tanta, ma non potevano vantare il titolo di “città d’arte”, perché quando disponi di fuoriclasse come Roma, Venezia e Firenze non puoi usare lo stesso titolo per altri centri artistici minori. Quelle città, allora, erano note principalmente per altro: per il distretto tessile, per i mobilifici, per il calzaturiero, per la meccanica, ecc.
Oggi molti di questi connotati sono annacquati o addirittura spariti, perché il contesto globale li ha resi inadeguati. Non essendo più né carne, né pesce, la provincia fatica a trovare un valido motivo per rivendicare la propria esistenza.
Ma in un momento storico in cui all’Italia vengono promessi 172 miliardi di Euro tramite il Recovery Fund, sarebbe importante riscoprire questi centri. Dovrebbero catalizzare dei veri progetti di rilancio e di valorizzazione delle loro specificità, del know how accumulato ed anche della loro edilizia storica. Perché l’Italia ha bisogno più di investimenti che di sussidi. I sussidi, prima o poi, finiscono. E, se non sono stati creati i presupposti per la generazione di nuova ricchezza, il rischio è quello di riproporsi sempre nella stessa veste: quella di un Paese in crisi perenne, che ha bisogno di aiuti e che, per questo, chiede al decisore di turno di mettersi una mano sulla coscienza. Non sembra una grande prospettiva.
Solo investendo e facendolo con progetti approfonditi e selezionati dai migliori interpreti nei vari campi (industria, design, architettura, finanza, scienza, ecc.) l’Italia può pensare di riemergere. Ed in questo occorre ricordarsi delle tante province, perché è lì che ancora, a fatica, sono conservate le unicità del nostro Paese. Le province tornino al centro. Ogni altra scelta somiglierà più al tentativo di rimandare la morte di ampie aree del territorio nazionale e, giocoforza, dell’Italia tutta. Con buona pace delle generazioni future.
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