Firenze e Prato. Due città così vicine, eppure così diverse.
L’una nobile ed anche un po’ boriosa. L’altra ruspante ed operosa.
L’una che si delizia della sua storica ed imparagonabile bellezza, che tutto il mondo le riconosce. L’altra famosa per lo più per la secolare tradizione tessile e, adesso, anche per la grande comunità cinese.
L’una selettiva e polemica. L’altra che bada al sodo e che se ne frega dei giudizi altrui.
L’una capitale dell’arte e della cultura. L’altra centro di tanti piccoli imprenditori e di opifici diffusi.
L’una più conservatrice, forte di un passato glorioso su cui ha basato la propria fortuna. L’altra che, invece, ha radici storiche minori ed è anzi abituata a vedere modificato il proprio tessuto, come avvenuto prima con l’immigrazione dal sud Italia e poi con quella proveniente dalla Cina, reinventandosi al meglio se le cose peggiorano.
L’una che basa la sua economia in buona parte sul turismo e sui servizi. L’altra che ama sporcarsi le mani e non buttare via niente.
L’una che ha cittadini orgogliosi della propria provenienza, sovente rivendicata anche con tatuaggi col simbolo della città sul corpo. L’altra che invece è abitata da persone spesso disinteressate alla propria realtà cittadina, abituate a vederla come subalterna al più noto capoluogo toscano.
Si potrebbe continuare all’infinito. Fiorentini e pratesi si incrociano in continuazione: a lavoro, all’università, nei locali notturni, allo stadio di Firenze, in Versilia, all’Abetone e ai concerti. Ma le differenze non si annacquano, anzi sembrano restare immutate col trascorrere del tempo. Quale sarebbe quindi il tratto comune alle due città? Per poterlo individuare dobbiamo fare qualche preambolo, partendo da quello che abbiamo compreso durante questa crisi legata al Coronavirus.
FIRENZE E IL CORONAVIRUS. I media hanno messo in risalto la crisi economica di Firenze. Non che Firenze sia l’unica città ad esser stata colpita duramente dagli effetti della pandemia. Ogni città sta fronteggiando una situazione senza precedenti per il lockdown e per tutto il lungo e graduale percorso di ritorno alla normalità. Ma quelle realtà, come Firenze, che hanno nel turismo il principale motore dell’economia, più di altre si sono trovate di fronte ad una situazione gravissima ed imprevedibile. In poco tempo si è ribaltato il contesto su cui tutti – amministratori locali, imprenditoria, investitori immobiliari, esercizi commerciali e normali cittadini – erano abituati a ragionare. Ogni logica è stata stravolta.
Chi ha fatto un investimento immobiliare nel centro cittadino puntando sul business degli affitti brevi, improvvisamente si è trovato a perdere completamente i ricavi e ad avere come unica certezza i costi fissi e le tasse da pagare. Alberghi, negozi, ristoranti, esercizi di ogni tipo. Niente è stato risparmiato, neanche il bilancio dell’amministrazione comunale fiorentina. Si è letto infatti che il Sindaco di Firenze, mosso dall’esigenza di sollevare l’attenzione su un grande problema, si è detto disposto a spegnere i lampioni della città, preoccupatissimo per il peggioramento del bilancio del Comune di Firenze, colpito, tra le altre cose, dall’improvviso azzeramento della tassa di soggiorno.
IL CASO DI PRATO. E dove sarebbe il legame con Prato? Non abbiamo detto che Firenze e Prato sono fortemente diverse? Prato ha conosciuto un colpo equiparabile negli anni ’90 e poi all’inizio del nuovo millennio. Ma, in questo caso, non è stata una crisi improvvisa. Le avvisaglie c’erano già da tempo. La crisi è stata determinata in primis dalla globalizzazione, con tutti i suoi devastanti effetti sull’economia del distretto. I concorrenti sono diventati internazionali e si è assistito alla progressiva chiusura di una miriade di imprese, dai piccoli lanifici alle piccolissime ditte di artigiani terzisti che operavano sulle singole fasi della filiera produttiva.
Fino ad allora, Prato non immaginava di dover vivere con qualcosa di diverso dal tessile. Per ogni famiglia era normale lavorare in tale ambito. Chiunque avviasse un’attività o una piccola impresa – a meno che non fosse completamente sprovveduto – poteva togliersi, con discrete probabilità, delle soddisfazioni.
Poi è successo che Prato è stata svegliata dal suo sogno, il sogno di una città che potesse vivere in eterno trainata dal tessile. Il settore è stato fortemente ridimensionato. Il mercato ha operato una sorta di selezione naturale: sono rimaste le aziende più sane, quelle più strutturate o che erano state capaci di ricavarsi delle nicchie importanti, quelle che hanno saputo resistere. Le migliori, insomma. Contemporaneamente, Prato – faticosamente e con clamoroso ritardo – sta lentamente provando a creare dei business alternativi. Ecco quindi che ha scoperto, anche lei, di avere delle bellezze da mostrare ai turisti. Ha scoperto di avere un territorio interessante da valorizzare. Ha iniziato a sviluppare l’imprenditoria in altri settori.
L’ERRORE COMUNE. E cosa c’entra Firenze in tutto questo? La riflessione che scaturisce leggendo le notizie sulla situazione del capoluogo toscano in questi giorni è che per ogni realtà economica – sia essa rappresentata dal piccolo patrimonio familiare, dagli investimenti di un’azienda e, a questo punto, anche dall’economia di una città – il rischio è troppo alto quando non si è stati capaci di diversificare sufficientemente su più ambiti i propri investimenti e la propria operatività.
Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l’economia e con gli investimenti sa che la prima regola di ogni buona gestione patrimoniale è la diversificazione del rischio. Non è saggio, né oculato, concentrare gran parte del proprio patrimonio in un unico asset.
E quello cittadino non è forse un sistema o un patrimonio da tutelare e da valorizzare? Siamo in un contesto diverso, perché questa volta parliamo dell’economia cittadina di Firenze (oggi) e di Prato (negli anni ‘90) e non di un portafoglio personale o familiare. Ma il paragone regge. Così come per una famiglia non è conveniente una situazione in cui il proprio sostentamento deriva da un unico investimento, probabilmente una città non dovrebbe vedere generato il proprio PIL da un unico settore o comunque da un settore così fortemente preponderante. Queste due città hanno potuto provare sulla propria pelle gli effetti di un’improvvisa crisi che colpisce il comparto in cui avevano pesantemente investito.
Forse, per restare in zona, da questo punto di vista è stata più abile Siena, che non si è basata solo su quello che girava intorno al Monte dei Paschi. Ha saputo abbinare un turismo particolare e difficilmente imitabile, incentrato sugli agriturismi, sulle terme, su eventi unici che tutto il mondo le invidia (basta pensare al Palio e ad eventi sportivi quali l’Eroica e la Strade Bianche), sui prodotti enogastronomici, sulla valorizzazione dei tanti borghi medievali della provincia, sulla qualità della vita. In poche parole, ha saputo diversificare.
CHI HA SBAGLIATO? È ovvio che, per entrambe le città, gli attori hanno tutte le attenuanti del caso. Firenze non poteva prevedere un virus con una potenza così devastante. Prato, forse, poteva invece almeno in parte prevedere gli effetti della globalizzazione. Negli anni d’oro, comunque, in entrambi i casi era pressoché normale che gli imprenditori locali investissero nei settori trainanti per le due città: turismo e tessile, rispettivamente. Tendenzialmente, infatti, i capitali vanno in maniera massiccia laddove si ritiene di poter trarre un rendimento quasi certo, non in iniziative sperimentali di dubbio esito.
Ma c’era qualcuno che invece poteva e doveva gettare le basi per evitare di trovarsi un giorno davanti ad un simile disastro, creando i presupposti per una graduale diversificazione delle attività. Quel qualcuno era la classe politica locale, in raccordo con quella regionale e nazionale. Chi aveva la responsabilità di dirigere queste comunità doveva lavorare per incentivare la ricerca di percorsi imprenditoriali alternativi idonei ad affiancare il core business, al fine di evitare che, per queste due città, le scommesse fossero fatte quasi tutte su un unico settore. Perché in nessun settore la crescita è infinita. Non esistono cicli economici fatti di sola crescita. A prescindere dall’avvento di un virus – che ha reso drastico e repentino il cambio di direzione del grafico di crescita dell’economia fiorentina – quanto ancora Firenze poteva pensare di crescere con il turismo di massa e di farlo senza generare impatti su altri aspetti della vivibilità cittadina?
Ecco, se la classe politica fosse stata un po’ più lungimirante e non si fosse concentrata sul ritorno di breve periodo – che, lo sappiamo, è più allineato con le tempistiche dettate dalle scadenze elettorali – Firenze avrebbe potuto fare tesoro della lezione che la vicina Prato aveva già provato sulla propria pelle. Avrebbe capito che la diversificazione è fondamentale in tutti gli ambiti, anche per le città. È naturale avere un settore principale, ma non è normale fare quasi un “all in” su un settore, come aveva fatto Prato e come ha fatto Firenze.
Ecco, forte anche dell’esperienza vissuta da Prato – che ancora paga pesantemente gli effetti della scarsa diversificazione della sua economia – Firenze doveva anticipare questo tentativo di esplorazione di nuovi ambiti. Non doveva attendere che fossero gli eventi disastrosi ad imporre un affannoso processo di ricerca. Questo perché il percorso mirato a creare delle alternative è lungo e pieno di ostacoli ed insuccessi. Lavorando su più alternative, forse si riesce a condurne in porto una. È per questo che il percorso deve essere iniziato con largo anticipo.
IL COMUNE AUSPICIO. Ci auguriamo tutti che la crisi del turismo e di tutto il suo indotto scatenata dal Coronavirus sia passeggera e che Firenze possa presto tornare ad attirare quei milioni di visitatori da sempre attratti dalle sue bellezze. Se così dovesse essere, l’auspicio è comunque che l’elevata insicurezza percepita nella situazione attuale non sia vana. Il rischio connesso alla scarsa diversificazione è sotto gli occhi di tutti e spetta alla classe politica e dirigente non vanificarne l’esperienza. La politica locale deve sapersi elevare al ruolo di facilitatore di nuovi progetti e di nuovi investimenti che non siano basati solo sull’utilizzo – più o meno diretto – del patrimonio che i nostri predecessori ci hanno lasciato, sia esso rappresentato dalla bellezza dei monumenti rinascimentali o dall’expertise in materia di produzione dei tessuti.
Per fare questo, occorre attrarre le tante eccellenze e competenze presenti sul territorio. In altre parole, la politica dovrebbe diventare il contesto di realizzazione massima di personalità che, nei rispettivi settori, hanno dimostrato di saper conseguire risultati di eccellenza ed hanno accumulato l’esperienza necessaria.
Oggi siamo molto lontani da questo scenario. Le personalità migliori, purtroppo, stanno alla larga dalla contesa politica, timorosi di finire nel tritacarne. Ma l’esigenza di ricongiungere le due sfere – quella delle competenze e quella dei decisori – è ormai indifferibile. Quando il mare è in tempesta, i passeggeri preferiscono sapere che la loro nave è condotta dal miglior comandante possibile.
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