Bentornata Silvia

È un dovere di uno Stato civile trarre in salvo i propri cittadini all’estero che versano in situazioni di grave pericolo, e ricercare verità e giustizia in caso di morte. E il principio vale per tutti: che tu sia un marò che ha preso a fucilate due pescatori di un peschereccio battente bandiera indiana, un giovane che muore per una rissa in una discoteca della Costa Brava, un giornalista idealista che svolge una inchiesta dagli oscuri risvolti internazionali, un fotoreporter che racconta guerre dimenticate ai confini del mondo. Figuriamoci se non si debba valere per una ragazza di venticinque anni che ha scelto nel fare del bene al prossimo, la propria mission. Che nella solidarietà ha trovato la propria ragion d’essere Non dovrebbero esserci davvero divisioni su una questione del genere. Se non quella tra umanità e disumanità. 

Del resto, l’assistenza dello Stato non è un regalo, tutt’altro. Le tasse che paghiamo servono anche a finanziare i servizi di intelligence, la rete diplomatica, ambasciate e consolati, il dicastero degli Esteri, in tutto il loro apparato politico, burocratico, amministrativo, per difenderci, nel caso che un nostro diritto venga violato, in un territorio straniero. Già questo potrebbe bastare a liquidare la questione sulle polemiche inerenti la liberazione di Silvia Romano. 

Nessuno l’ha obbligata, si sente dire da chi, in un totale rovesciamento dei valori, invece che gioire, si indigna. È vero, prendersi cura dei bambini orfani keniani non te lo ordina il dottore. Ma è proprio questo il motivo per il quale, chi se ne occupa, merita stima e rispetto piuttosto che biasimo. Silvia non era in 

Kenya, per noia, per fare l’alternativa, come fosse un apericena multietnico a base di cous cous, secondo quella narrazione un po’ caciottara che spesso ricorre. Si può andare in Kenya anche per non fare safari, per non prendere il sole sulle spiagge dell’Oceano Indiano, per non cercare sesso – che tanto quando si tratta di donna e Africa l’equazione è sempre quella. Ma per prestare la propria opera in un orfanotrofio, prima essere rapita da terroristi somali. Sono scelte di vita. 

Fosse stata una turista, nessuno avrebbe avuto da obiettare sui soldi del suo riscatto. Sarebbe stata “una di noi”, “una italiana”, e non una ingenua buonista che ci fa spendere soldi. 

In realtà, spesso e volentieri, non è nemmeno una scelta: ma una vocazione, a volte religiosa a volte laica, ma comunque un anelito interiore al quale difficilmente ci si può sottrarre. Di sicuro non è una scelta estemporanea, perché richiede studio e preparazione tecnica. Parlo con cognizione di causa visto che, nella mia vita, mi è capitato di partecipare a missioni civili in zone di guerra, come osservatore internazionale in occasione di elezioni: nella Palestina per scelta, e nella Repubblica Democratica del Congo, catapultato quasi per caso. Episodi significativi, nel corso di una vita che poi ha preso altre traiettorie, che mi hanno permesso di conoscere da vicino quel mondo. Conoscere quelle persone. Le loro storie. Conoscere l’Africa. Incontrare ufficiali e soldati dei caschi blu. 

“Dire se stava a casa non le sarebbe successo”, è un po’ come dire “non sono razzista ma…”, “io ho molti amici gay, però…”. Dove i se, i ma, i però, affermano ciò che ipocritamente si vuol negare. Silvia Romano stava lì. Non servono le giustificazioni dinnanzi al fatto concreto: quello di una giovane donna, cittadina italiana, rapita e tenuta prigioniera per un anno e mezzo, per la disperazione dei propri cari. Il resto, per quanto straordinariamente nobile, è comunque del tutto superfluo. Così come è del tutto superfluo ricordare come, all’origine della grave situazione di instabilità di quell’area tra Kenya e Somalia, a sud dell’Etiopia, vi sia la responsabilità diretta di Italia e Inghilterra e le loro politiche coloniali nell’aera del Corno d’Africa. 

Rimane la questione etica se sia opportuno che lo stato ceda al ricatto di terroristi che, con quei soldi, strumenti per altri odiosi crimini. E qui la questione si fa complessa, il terreno scivoloso, si esce da ciò che è certo e si entra in una dimensione soggettiva, di pro e contro in cui non è semplice ricercare il prevalente. Certo, non può non venire in mente che ieri si commemorava la morte di Aldo Moro, lasciato ammazzare dalle Brigate Rosse, nel nome di una fermezza che non solo non è servita a salvargli la vita, ma nemmeno a dissipare le ombre e le domande inquietanti che a distanza di anni, aleggiano ancora sull’intera vicenda, senza trovare risposte definitive.

Situazioni e contesti diversi, certo, che non hanno alcun collegamento tra loro, se non su un piano meramente simbolico. Però io credo che il compito di uno Stato sia tutelare i propri cittadini. L’Italia doveva fare tutto il possibile per salvare la vita a Silvia Romano, il resto spetta ad altri organismi internazionali che del dramma di quella parte di mondo, se ne sono sempre beatamente lavati le mani. Che in fondo, banalmente, basterebbe non vendere le armi in Somalia.

Bentornata Silvia.
Orgogliosi di te.

Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Matteo (5,9)

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