La rituale conferenza stampa del weekend del Presidente Conte ha fatto un po’ di chiarezza su alcuni aspetti della ormai attesissima Fase 2. La timeline delle riaperture però non ha soddisfatto tutti. Anzi, a dire il vero, lascia molte perplessità. A partire dalla posizione dell’esecutivo sulla riapertura delle scuole (che il nostro Alessandro Raugei sta trattando ampiamente qui e qui) fino al futuro dei ristoranti, dei bar, dei parrucchieri e di tantissime altre cose.
Soprattutto fa riflettere il modo in cui, in mancanza di una visione politica di medio lungo termine, siano state prese decisioni uguali per tutto il territorio italiano quando i numeri, in realtà, ci dicono chiaramente come l’emergenza vera e propria si sia concentrata più che altro nelle regioni del nord e solamente da una certa età in su.
Imporre a tutti gli italiani di stare chiusi in casa per tre mesi non è una scelta politica ma un’importante privazione della libertà individuale dei cittadini senza precedenti nella storia della nostra Repubblica. Si naviga a vista e, come ha definito l’ottimo Francesco Cundari su Linkiesta, “dal modello coreano a tre T (Testare, Tracciare, Trattare), siamo passati al più antico modello italiano a tre P: Più avanti, Più o meno, Può darsi”.
I membri del Gruppo Sorveglianza Covid-19 dell’ISS, hanno rilasciato un primo report dettagliato che mi spinge a fare qualche considerazione.
TUTTE LE REGIONI TRATTATE UGUALI. Non aver fatto differenza tra le regioni, per quanto mi riguarda, è l’errore più grave. Per quale motivo un parrucchiere che lavora ad esempio a Lecce, città nella quale non si stanno registrando nuovi contagi da tre giorni di fila, deve riaprire a giugno esattamente come il collega che sta in Lombardia, dove ieri i nuovi contagiati sono stati un terzo rispetto a tutto il resto del territorio nazionale? Perché un ristorante in Molise, dove i nuovi casi sono quasi vicini allo zero da quasi una settimana, deve poter riaprire quando potrà farlo una pizzeria in Piemonte, regione nella quale purtroppo l’emergenza sembra non aver ancora raggiunto il proprio picco?
Se si osserva il dettaglio della tabella seguente, si nota chiaramente come l’impatto del virus sia stato differente da regione a regione. L’82,3% dei decessi è avvenuto nelle quattro regioni più colpite: Lombardia, Emilia, Piemonte e Veneto. L’altro 17,7% invece, è spalmato in tutto il resto d’Italia. E, se una prima fase di lockdown nazionale era dovuta e quantomeno necessaria, dovremmo interrogarci su quale sia il senso adesso di proseguire convinti su questa strada.
PERCHÈ GLI ANZIANI UGUALI AI TRENTENNI? Dai primi di marzo abbiamo iniziato a stare chiusi in casa e a chiudere praticamente quasi tutte le attività economiche e sociali. A mio avviso sarebbe stato opportuno che il lockdown nazionale fosse durato fino al 14 aprile, anche per evitare gli spostamenti durante Pasqua, e non fino al 4 maggio. Da quella data si sarebbe dovuta impostare una ripartenza graduale, sia su base regionale che per età anagrafica. Osservando la tabella seguente, salta subito all’occhio come il virus abbia colpito in maniera nettamente superiore la popolazione sopra i cinquant’anni. Sono stati “solamente” 520 i decessi under 50 sul campione complessivo di 23.188 analizzati. Se poi volessimo spingerci sul dato degli under 40, i deceduti scendono addirittura a 114 su 23.118. E senza stare a fare distinzioni tra chi già soffriva di altre patologie gravi e chi invece è morto “solo” di Covid-19.
Se quindi consideriamo l’impatto nei virus nelle diverse regioni e nelle diverse fasce d’età e si intrecciano questi dati con quelli dei luoghi di contagio (in questo articolo parlo del caso della Sardegna, al momento ancora l’unica regione che ha pubblicato queste statistiche), si capisce che la strategia del governo in realtà è una non strategia.
È STATO GIUSTO FERMARE UN INTERO PAESE? A fronte di questi dati, appaiono ancor più sorprendenti le misure adottate dal governo, sia nella gestione della ripartenza che nella durata del lockdown. Per questi motivi, la riapertura dei parrucchieri i primi di giugno in Lombardia magari potrebbe essere una scelta perfino troppo frettolosa mentre la stessa data, fatta cadere in Puglia, risulterebbe forse tardiva. Riaprire le aziende in Lombardia non avrebbe lo stesso effetto che avrebbe la riapertura delle aziende in Sicilia. E mi spingo oltre. Permettere ai lavoratori under 40 di riprendere la propria attività avrebbe comunque un impatto diverso rispetto ad una ripartenza concessa ai lavoratori indistintamente dalla loro età. E così via.
Uno governo all’altezza della situazione, lo ribadisco per l’ultima volta, dopo un primo momento di lockdown nazionale avrebbe organizzato la ripresa su base territoriale e tenendo conto dell’età. Avrebbe mappato, tenuto sotto controllo i dati e su questi avrebbe preso decisioni. Ma, questo approccio, avrebbe comportato un’assunzione di molte responsabilità politiche anche pesanti da sostenere. Il governo invece ha preferito scegliere di non scegliere. E, i danni economici e sociali di questo atteggiamento, sono e saranno incalcolabili.
Il messaggio che «la colpa sarebbe degli italiani che non stanno a casa» è il matra più ingiusto che una classe dirigente potesse ripetere all’infinito fino a farlo diventare regola. Fare politica vuol dire amministrare le cose, non semplicemente proibirle ad oltranza. Questo lo sanno fare gli incompetenti. E, un Paese come l’Italia, non può permettersi una classe dirigente così.
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